Salmo ci racconta la sua storia nel libro Sottopelle
Cosa sono le canzoni, se non pagine di un diario in musica?
Ascoltando la musica dei nostri artisti preferiti, in questo caso di Salmo, veniamo a conoscenza di molte cose del suo vissuto, i suoi pensieri, il modo in cui affronta le situazioni, le sue passioni e il suo percorso. Leggendo Sottopelle, ti sembra un po’ di leggere parte della sua discografia, arricchita da episodi e pensieri di cui non eravamo a conoscenza.
La storia di Salmo, a grandi linee, la conosciamo già. Nato nel 1984 in Sardegna arriva poi a fare musica, o meglio, a far diventare la musica la sua professione a 27 anni. Tardi, se pensiamo che oggi la maggior parte dei nuovi fenomeni esplodono a 19 e poi finiscono nel dimenticatoio a 23 a essere generosi.
A casa di Salmo, come del resto in molte altre case, fare musica non era un’opzione.
“In casa mia, la musica non esisteva. Testa bassa e lavorare, queste erano le radici. Non c’era un piano B. A casa non c’è mai stato troppo tempo per perdere tempo.
Io vengo da quella mentalità lì, c’è poco da fare. Per fortuna i miei genitori non sono mai stati troppo credenti, fanno parte di quei cristiani a cui della religione non frega un cazzo. Mi sono risparmiato il catechismo e la Cresima. L’arte, per i miei, non era un lavoro, e fino a una certa età neanche per me lo è stata.
Suonare, essere un rapper, erano cose distanti dai miei sogni.
Almeno fino ai tredici, quattordici anni, la musica per me non era neanche un sottofondo, non era un talento che gli altri vedono in te e ti spingono a coltivare, come in quelle famiglie dove i genitori credono nei figli e mandano a troie tutto quanto per farli diventare dei campioni mondiali di qualcosa”.
In un contesto del genere, dove non hai il papà che ti dice “ti compro uno studio di registrazione, ti pago il tuo primo disco, o ti mantengo fin quando non trovi la tua strada e capisci quale sia il tuo talento”, devi lavorare. Pensare magari che passerai la vita a fare un lavoro manuale noioso e che sia quello il tuo destino.
Il rap, come racconta Salmo non era una garanzia di successo.
“Fare Rap non era la moda da seguire, era la moda che stavamo inventando, ma che vivevamo come una colpa.
Dovevamo stare nascosti per farlo, e per fortuna che, paradossalmente eravamo in pochi. Ci creammo uno spazio, ma inventarsi un perimetro in quattro gatti non è un’avventura, è una impresa suicida…
Era il’96, 97. Il mondo di allora non aveva quasi mai avuto il Rap in classifica. Sottotono, Articolo 31, Neffa, ma era un successo minimo e di pochissimi, di nicchia, insomma. In un ambiente così piccolo e poco cagato da chiunque, noi ci prendevamo bene con la nicchia della nicchia”.
Salmo ha il suo gruppo, con il quale un giorno parte per l’Inghilterra, in macchina, da Olbia, mica su un volo in business class. E mentre è a Londra, qualcosa in lui si accende.
“Quando saltavo dentro un vagone pensavo alle sliding doors tutte quelle puttanate sul destino che cambia in base alle scelte che facciamo e ci credevo.
E ci credo ancora.
Claudio mi aveva rimediato un ingresso al Fabric, diceva che era il club più potente di Londra e i di spaccavano il culo. «Marco ha recuperato I’MD» aveva poi aggiunto Claudio. Dovevo farmi trovare alle 22 a Charterhouse Street, ma era dall’altra parte della città. Per una serie di coincidenze, riesco ad arrivare puntuale ed entriamo al Fabric. Un rapper inglese parte a rappare su un beat elettronico. In quel momento sento le campane nella testa, ma non era l’MD, che sapevo avrebbe impiegato quaranta minuti per salire. Se fossi andato a pisciare prima, mi sarebbe salita più veloce. Comunque, sento le campane.
Ho come un’illuminazione. Si accende una lampadina. “Ho capito cosa devo fare” penso. “Voglio fare Rap sulla musica elettronica. Questo voglio fare. E se sono qui in questo momento, vuol dire che c’è un motivo.” Ero preso bene, pensavo che una volta tornato a casa avrei fatto il mio disco rap da solista e che avrei rotto il culo a tutti i rapper italiani. Nessuno faceva questo tipo di Rap in Italia, forse poteva essere la via giusta per me”.
Salmo perde di nuovo il lavoro, si ritrova a scrivere le sue canzoni, il suo primo disco, in un bar e pensa “mio fratello Seba è uno in gamba, si fa voler bene e ha voglia di lavorare, non è come me. Io vivo ancora con i miei genitori, ho venticinque anni e non so cosa fare della mia vita”.
Sliding doors è un tema ricorrente nella vita di Salmo, un po’ come i calci in culo.
Beh, per farla breve finisce il disco, Slait, che oggi è uno dei manager più importanti del panorama musicale italiano, gli propone di farlo girare. “Chi avrebbe mai pensato che un ragazzo di provincia, esattamente come me, un amico con cui ero cresciuto, ma con un’esperienza veramente da paese su certe cose, sarebbe riuscito a farmi aprire un concerto dei Club Dogo all’Alcatraz di Milano?”
Poi un giorno, arriva una telefonata, un’etichetta indipendente di Genova gli propone un contratto. Si chiama Kick Off e Salmo pensa “un altro cazzo di calcio. Speriamo davvero che sia un calcio d’inizio e non il solito calcio in culo”.
Un po’ in culo però se l’è presa.
“La Kick Off si rivelò un salto dalla padella alla merda.
Avevo firmato per il mio primo disco, The Island Chainsaw Massacre, forse senza leggere bene il contratto. La vecchia storia delle clausole invisibili, no?
In una di quelle clausole c’era scritto che non avrei mai preso un cazzo da quel disco e, soprattutto, che loro avrebbero potuto fare tutto ciò che volevano con la mia musica. Ma, ed è la cosa peggiore, avrebbero potuto sfruttarla per tutto il tempo che desideravano.A guardare la cosa da qui, da tredici anni dopo, so che figura faccio: quella dello sprovveduto, a essere gentile. Ma ho fatto pace con quella parte della mia esistenza.
Era normale che fossi ancora un ingenuo. Ed è altrettanto normale lasciare correre, visto come mi è andata dopo. A loro, in fondo, sono rimaste solo le briciole.
Slait mi mise in contatto con Harsh e Guè. A Cosimo piaceva il mio pezzo Yoko Ono e mi convinse a firmare per la sua etichetta Tanta Roba. Nel roster c’erano anche Fedez, Ghali, Ernia, Gemitaiz, Madman ed Ensi.
Da lì in poi sarebbe stata un’escalation, ma non così facile come molti potrebbero pensare. In realtà, quando arrivai a Milano non fu semplice inserirsi nel giro.
Quando uscivamo al Berlin, c’era sempre uno che diceva: «Eccoli, sono arrivati i sardi». Noi eravamo i nuovi arrivati nella scena.
Eravamo la Crew Machete”.
Beh, comunque, era a Milano, da Olbia, dove forse sarebbe rimasto condannato a una vita di lavori manuali, era a Milano con la possibilità concreta di vivere di musica. Certo, non era tutto oro, viveva in una casa piccola, zona Pasteur.
“Comprai un letto a castello con i soldi dei concerti. Riuscì fare un piccolo studio di registrazione nella parte inferiore della truttura in legno, quella fu un’idea intelligente. Camera mia era grande tre passi, per me era perfetta. Ho sempre odiato le camere troppo grandi perche la vosticace una neraa, c’è troppa dispersione acustica.
Il letto a castello non fu mai avvitato correttamente; era così pericoloso che spesso, quando ero ubriaco, preferivo dormire per terra. Ci trasferimmo a Milano nel 2011, la prima casa in affitto era un alveare popolare in zona Loreto, precisamente Pasteur. Vicino a noi c’era un centro sociale, casa nostra sembrava la succursale di quel disagio, ma noi eravamo felici così, d’altronde siamo sempre stati quelli delle palazzine. Ci siamo lavati con le saponette anche noi. Sotto il pavimento passavano tubi dell’acqua calda, quindi d’inverno sembrava di stare in Sardegna…
Il mio vicino di camera era Nitro. Appena diciottenne, scelse di vivere in quella Spa del disagio insieme a me e Di Slait.
Racevamo una vita da universitari, i live erano come esami di maturità.
La Machete è nata prima che la moda vestisse i rapper italiani questo per intendere che, nella nostra crew, vestirsi di merda era una regola fondamentale. Camicie a quadri, scarpe Vans, calzettoni alti trucker in ta sembravamo i Suicidal Tendencies.
Il mio manager di allora era Dj Harsh. Non è mai stato un vero di, Harsh. Ma era un ottimo manager.
Come per magia, balzai da un’etichetta all’altra e firmai per il Booking di Harsh, “ZonaUno”.
Nel 2012 partii per il primo tour ufficiale: erano previste venti date nei club italiani. Decisi di portare in tour con me tutta la crew, non volevo una squadra nuova.
Volevo gli amici miei. Ogni membro della Machete aveva un ruolo preciso: uno faceva il di, un altro le doppie voci, due erano al merchandising, uno guidava e qualcuno faceva le riprese. Tutti sardi. In quel periodo c’era la fissa di portare come ospite nelle discoteche un disperato concorrente di Uomini e Donne.
I Club Dogo erano stati i primi a cambiare il gioco dei club, erano riusciti a sostituire quel tipo di ospitata trash con la musica rap.
Poi siamo arrivati noi nelle discoteche e abbiamo distrutto tutto. Letteralmente.
Erano gli anni della Dubstep, e noi ci rappavamo sopra.
I beat erano molto potenti, e il pubblico finiva per pogare o fare a pugni. Molti di loro erano usciti solo per chiavare, non per sentire un rave di rapper in discoteca”.
È dai concerti che Salmo inizia a guadagnare. Oggi se pensiamo a lui siamo tutti concordi nel dire che è il migliore dal vivo, ma per essere il migliore, non solo devi aver fatto tanta gavetta, ma devi avere anche una mentalità di un certo tipo. Devi essere consapevole di quanto il live sia importante per un artista e per il suo pubblico, perché alla fine è solo sul palco che ti metti a nudo davvero e dimostri cosa sai fare.
“Quanto può fare la differenza saper cantare dal vivo al giorno d’oggi? Diciamoci la verità: la musica e i concerti sono la cosa meno oggettiva del mondo. Insomma, nel calcio, se una squadra è più forte dell’altra segna più gol dell’avversario, vince.
Fine.
Nei concerti non è così.
Se dovessimo paragonare i concerti a una partita di Champions League potrebbe andare così: “Il nuovo fantastico influenzer oggi scende in campo senza alcuna capacità calcistica, ma con le scarpette telecomandate in grado di fargli giocare bene le partite. Peccato per il rigore sbagliato; si vocifera che abbia impostato male l’autotune”. Vabbè, nessuno ama più il calcio, sono tutti innamorati del singolo calciatore.
Ma il live è sacro, è una religione.
È la prova del nove, l’esame della vita di un musicista.
Non capisco come uno possa spendere 300 euro per vedere Kanye West vestito come una busta di monnezza mentre mette play dal suo iPhone, senza cantare una parola. Era così bella la musica dal vivo, prima, perché devi rinnovare o rendere alternativo tutto? Ma vaffanculo.
Dovrei smettere di pensare all’evoluzione. Perché di questo si tratta. C’è sempre la versione beta, il maledetto 2.0, la nuova versione di ‘sto cazzo.
La nuova moda del momento o la controtendenza. Quella brutta fissa di cambiare le cose. Perché aggiustare qualcosa che funziona benissimo?
Prima c’era una regola precisa: se non sai cantare dal vivo, sei un coglione. Che fine ha fatto?
E quando dicono: «Scusate, non sono un vero cantante e non mi interessa esserlo», non ti girano le pale coliche? Se poi aggiungiamo che test fanno cagare, allora che facciamo?
Non sai cantare, non sai scrivere.
Buona notte.
Spero sia tutto un incubo e che, al risveglio, le persone si rendano conto di quanto siano importanti i concerti dal vivo. Se stai leggendo questo libro e il tuo sogno è fare musica di alto livello, impara a cantare in live.
Fidati di me
Respira”.
E poi è arrivato il suo primo San Siro. Il primo rapper a riempire uno stadio. Una cosa che Salmo aveva già vissuto nella sua testa tantissime volte, da ragazzino, nella sua cameretta di Olbia. Aveva immaginato la gente, i fotografi, tutti che cantano le sue canzoni. Forse non sapeva allora che tutto sarebbe diventato realtà, o forse neanche che era quello il suo destino.
“L’avevo immaginato nella mia mente così tante volte che alla fine si è manifestato davanti ai miei occhi. Mesi prima mi avevano chiesto cosa volessi sul palco, quale scenografa preferissi per lo spettacolo, e io risposi alla squadra che la prima cosa a cui si pensare doveva essere l’audio.
Che l’custica a San Siro sia una merda è risaputo da molti addetti ai lavori, perciò chiesi di raddoppiare l’impianto audio per accontentare il più possibile le orecchie del pubblico. Cantare dentro uno stadio è una cosa complicata, un vero dito nel culo, come direbbero ad Harvard.
Esistono diverse problematiche da affrontare prima di potersi esibire sul palco; se non hai la minima esperienza, potresti andare nel panico e fare la figura del pollo. Il classico “problema tecnico” è sempre dietro l’anglo: ti aspetta sveglio tutto il giorno per ricordarti che, appena avrai risolto un problema, ne spunterà subito un altro e poi un altro ancora.
Per fortuna non uso l’autotune; se l’avessi usato anch’io, come tutti gli altri, ora probabilmente sarei in riabilitazione per esaurimento nervoso.
Non capisco perché i miei colleghi continuino a usare quella merda di effetto, rischiando ogni volta di rovinare la loro esibizione. Preferisco una stonatura piuttosto che sentire la voce del citofono.
Utilizzare l’autotune, quando non sai cantare, è come nascondere la monnezza sotto il tappeto o come indossare una patch cutanea si alza il vento, ti vola via il parrucchino e tutti scoprono cosa stavi nascondendo sotto il tappeto: la verità.
Su un palco come quello di San Siro devi essere totalmente sincero. Se non hai il coraggio di metterti a nudo davanti a cinquanta, sessantamila persone, non puoi esibirti: rischieresti di essere divorato dalla folla o dalle tue insicurezze. Per fortuna avevo già fatto esperienza negli stadi, quindi il mostro finale non mi spaventava per niente. Quei tredici concerti negli stadi di tutta Italia in apertura a Jovanotti mi avevano insegnato come conquistare la folla e dominare un palco di ottanta metri. Durante quell’esperienza del 2015 mi trovai davanti a un pubblico che non mi voleva. Ricordo che i padri tappavano le orecchie ai figli, alcuni mi facevano il cazzo con il dito, mentre altri si giravano lentamente con le braccia conserte per darmi le spalle e ignorarmi. Loro erano i miei preferiti. Ma quello era solo un vecchio ricordo; al mio concerto a San Siro sarebbe stato tutto diverso.
Il giorno del live, prima di salire sul palco, mi sono sdraiato sul pavimento del camerino e ho iniziato a respirare con il diaframma, pensando al concerto. L’attesa sembrava non finire mai: sentivo le voci dello stadio, e l’energia delle persone faceva vibrare il soffitto.
Volevo salire sul palco subito, non volevo aspettare un secondo di più.
Quando è partita l’intro di 90MIN, ho sentito il boato dello stadio: sembrava di aver segnato un gol di rovesciata al novantesimo minuto di una finale di Champions. Da quel momento in poi non ricordo nulla: ho messo il pilota automatico e ho fatto ciò che dovevo fare. Sapevo che sarebbe andato tutto bene, eravamo molto sicuri di noi stessi.
Credo di aver eliminato l’intera esibizione di quel giorno dalla mia testa; ogni tanto penso che sia stato qualcun altro a fare quel concerto al posto mio. Probabilmente è così.
L’emozione è stata cosi forte da far sembrare tutto estremamente veloce.
L’adrenalina può alterare la percezione del tempo quando sei su un palco come quello di San Siro: tutto scorre velocemente, e anche la musica ti sembra più lenta di come l’avevi concepita.
Quel giorno lo ricordo come un sogno durato pochi secondi”.
Nel libro, Salmo parla anche del famoso cartellone per promuovere lo stadio, quello con il sangue che cola, che ha dovuto sostituire con uno con dei gattini, perché alla fine la gente ama i gattini, del dissing con Luchè che ci ha allietato le giornate sotto l’ombrellone qualche estate fa, del concerto “abusivo” in Sardegna durante la pandemia e delle conseguenti polemiche, della sua passione per la recitazione e la regia, e della sua terra, ma quello che più di tutto mi ha colpita è proprio la sua storia, fatta di sliding doors. La storia di un ragazzo, cresciuto in un posto dove l’arte non è considerato un lavoro, ma che alla fine, partendo dal nulla, lavorando, faticando, mangiando anche un po’ di merda, diventa una leggenda del rap italiano.
E la storia del rap, perché il rap non era la via più facile, come lo è ora, per diventare velocemente ricchi e famosi, era quel qualcosa che ragazzi come Salmo stavano creando, era quella cosa che ti faceva sentire diverso, emarginato, sia se lo facevi, sia se lo ascoltavi, di certo non era la moda, non era di moda, ma lui ha dato il suo contributo affinché diventasse ciò che è oggi.
E oggi Salmo cosa fa?
Ha comprato una casa in collina.
“Ho intenzione di costruire un ranch su questa collina, mi trovo tra la città e il mare, a ottanta metri d’altezza. Il mio prossimo obiettivo è invecchiare, perdere tutti i capelli farmi crescere la barba e le unghie dei piedi, usare solo ciabatte, fare un orto con piante di marijuana intorno, avere asini, galline, due cani, una sedia a dondolo e un fucile. Voglio ascoltare vinili tutto il giorno, come un hipster che, in realtà, si chiama Pinuccio.
Finalmente mi sono disintossicato dai social network, anche se non so per quanto riuscirò a starne lontano. Da quando ho mollato Instagram mi sento molto meglio. Se devo pubblicare qualcosa di importante, lascio che un amico gestisca la mia pagina. So che sembra assurdo, ma i social mi hanno rovinato intere giornate. Qui al rancho non prende bene internet, meno male.
In questo periodo della mia vita sono felice: su questa collina mi sembra di aver trovato la pace e l’ispirazione che stavo cercando. Chi lo sa, potrei diventare il nonno di Heidi oppure fermarmi e godermi i soldi e la vita, ma per me non è mai solo questione di soldi, è questione di vita. Mi sono stancato di stare a Milano: la vita lì è troppo veloce, e stava iniziando a non eccitarmi più, quindi, per ora, ho deciso di isolarmi da tutto e da tutti.
Devo prendermi uno o due anni di pausa per scrivere il nuovo disco e poi ripartire in tour. Non so quando, ma so che non posso stare lontano dal palco troppo a lungo. Ho un paio di canzoni nuove da parte e voglio cantarle dal vivo. Non ho la minima idea di cosa succederà nei prossimi anni, ma mi farò trovare pronto. L’unica cosa che mi tiene in piedi, artisticamente parlando, è la sensazione di avere sempre un nuovo obiettivo davanti a me. Finché sentirò questa spinta, tutto andrà bene”.