L’unico atto di fede di Jesus is King è quello dell’ascoltatore

Jesus is King di Kanye West non solo non è un miracolo, ma non convince per niente. È un lavoro raffazzonato, incompleto e non omogeneo dalla prima all’ultima traccia. Non stupisce infatti che la data di uscita sia stata rimandata due volte, e non si capisce perché non sia stata rimandata ancora, fino almeno ad arrivare a una completezza maggiore.

 

Kanye West sentiva il bisogno di raccontarci la sua redenzione e il suo aver trovato Dio, ma non è di certo la prima volta che Kanye ci parla di Dio in un suo disco e quello che colpisce è che il tema principale non sia Dio, ma l’argomento che sta maggiormente a cuore a Kanye West: Kanye West. 

A parte la prima traccia, le altre sono incentrate su costanti riferimenti ai testi sacri, a volte anche banali, che convergono in modo naturale verso il suo ego. Altro argomento è la malattia mentale di cui soffre Kanye West, il bipolarismo, che non viene trattato in modo esplicito come in Ye, ma che comunque si percepisce nel suo approccio ossessivo alla fede. Così il declinare il rap a musica del demonio, o il chiedere alle persone che hanno lavorato al disco di non fare sesso prima del matrimonio sembrano più una sua fissazione che un modo per elogiare Dio.

 

L’impressione è che Kanye West volesse raccontarci la sua redenzione e l’aver trovato Dio, ma a parte nominare Dio più e più volte fino allo sfinimento, non ci racconta niente. Gli crediamo sulla fiducia e ci godiamo i suoi Sunday Service su YouTube, ma il racconto, in un disco che è stato venduto come di redenzione, è nullo. Gli stessi riferimenti alla sfera religiosa sono ripetitivi, meccanici, ossessivi, anche per un album di devozione, mentre i riferimenti biblici appaiono annacquati, elementari e superficiali, tanto che un bambino che frequenta il catechismo avrebbe potuto trovare facilmente di meglio. Di fatto è un disco che non dice niente, o comunque ben poco e a questo si aggiungono melodie algide, sonorità asettiche, pochissime innovazioni e eccessivo autotune in Hands on.

 

Ancora una volta, però, Kanye West impressiona per le sue doti di produttore, di arrangiatore e per i campionamenti usati. Come in Closed on Sunday, o in Can you lose by following God. Forse il momento più  alto del disco è Use this gospel, un brano minimalista, nel quale West rimette insieme il duo rap Clipse e concede il finale a un assolo del sassofonista Kenny G e che sembra essere il più sincero e profondo dell’intero lavoro. Per il resto si fa fatica ad arrivare alla fine e viene da pensare che l’unico atto di fede sia quello dell’ascoltatore che arriva indenne all’ultima traccia.

 

Ma Kanye West è Kanye West. Un intoccabile. Ma anche un genio che non ti vende solo il disco, ma lo accompagna a un film omonimo, così giusto per far girare il verbo di Kanye West (ops di Dio). E un artista dotato di un indiscusso talento al quale si perdonano scivoloni stilistici e anche incoerenza. Oggi trova Dio, domani lo possiamo tranquillamente vedere su Pornhub e nessuno si stupirebbe, perché Kanye West è così.

 

 

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