Ieri come oggi: non sempre la tv e i media generalisti capiscono il rap
Settimana scorsa abbiamo assistito all’ultimo, in termini di tempo, episodio di disinformazione legato al rap. Mi riferisco a Mario Giordano e alla sua trasmissione Fuori dal coro, durante la quale ha dato una visione distorta, di parte, e fuorviante di quella che è la cultura hip hop e l’immaginario raccontato nelle canzoni. In particolare, seguendo la scia televisiva e giornalistica, dalla tragedia di Corinaldo in poi, Mario Giordano ha accusato la trap di promuovere l’uso di sostanze stupefacenti, di invitare i ragazzi a drogarsi, a commettere atti violenti e illeciti. È la prima volta che succede?
Assolutamente no. Gli episodi più recenti si contano dall’esplosione di Young Signorino, accusato di promuovere droga e satanismo, fino a tutto quello che ha seguito la tragedia avvenuta alla Lanterna Azzurra di Corinaldo, che ha fatto sì che i riflettori si riaccendessero sul fenomeno rap/droga. I meno giovani, però, ricorderanno il primo decennio del 2000, quando Fabri Fibra e i Club Dogo vennero duramente e ripetutamente accusati di inneggiare alla violenza, difendere Omar e Erika, promuovere l’uso di droga. Sostanzialmente la stampa generalista e i media si accorgono del rap quando hanno la possibilità di sputarci sopra, e allora ne parlano e ne scrivono senza cognizione di causa alcuna e dandogli le colpe più disparate. Era così allora ed è così oggi. Salvo poi sfruttare la popolarità del rap per scrivere articoli o interviste che vadano ad aumentare i loro click.
A tal proposito, Don Joe ne Il Tocco di Mida, spiega come ha vissuto, insieme ai Club Dogo, quel periodo in cui la stampa continuava a dargli addosso, accusandoli di inneggiare all’uso di droga nei loro testi. Esattamente come sta facendo ora con la trap.
“I nostri detrattori ci accusavano di promuovere la droga, di trattare le donne come oggetti, di non avere rispetto per niente e per nessuno. In realtà, quello che facevamo era raccontare cose di cui eravamo testimoni, che vedevamo succedere tutti i giorni sotto i nostri occhi. Spesso anche rischiando in prima persona, perché, a furia di voler osservare troppo da vicino la strada, potevi essere tirato in mezzo a brutte situazioni. Fa quasi tenerezza ripensarci, perché l’immagine che traspare da molti trapper di oggi – non solo dalle canzoni, ma anche da Instagram – è molto peggio della nostra: mitra spianati, lame, codeina come se piovesse, Xanax come se fossero caramelle, nichilismo a
manetta, zero valori di base o prese di posizione. Forse adesso è socialmente più accettato, non so. Ai tempi, però, il trattamento che ricevevamo sui giornali e in televisione ci ha penalizzato moltissimo, perché distorceva completamente il messaggio che cercavamo di trasmettere.
Da una parte è normale che ci trattassero così: quando un cinquantenne moralista ci faceva qualche domanda che non c’entrava un cazzo con noi e con la musica che facevamo, gli rispondevamo con l’irriverenza che avrebbe usato qualsiasi ventenne. E lui, come qualsiasi cinquantenne, s’incazzava perché gli sembravamo dei pischelli irrispettosi e pieni di sé. Altre volte, invece, il giornalista di turno riconosceva il valore della nostra musica, ma gli stavamo talmente sul cazzo per immagine e atteggiamento che alla fine ci massacrava comunque. La maggior parte delle interviste sembrava un esame, e noi venivamo costantemente
bocciati. In alcuni casi la polemica si trascinava per mesi, come capitò per gli scontri con le redazioni di “XL” e del portale Rockit: diventavamo delle belve
quando capivamo che la persona che avevamo davanti partiva prevenuta o quando, ad articolo pubblicato, ci rendevamo conto che non aveva capito una minchia di quello che avevamo detto. Personalmente, ho imparato abbastanza presto a non parlare molto durante gli incontri tra i Dogo e la stampa, per non creare fraintendimenti, perché spesso e volentieri i nostri interlocutori erano talmente confusi sui nostri ruoli che chiedevano conto a me dei testi di Gué, o a Gué dei testi di Jake. Eravamo tre teste pensanti, tre individui molto diversi tra di loro, ma venivamo catalogati come un’entità unica. Cosa che ci faceva girare i coglioni ancora di più“.
Cos’è cambiato dal racconto di Don Joe ad oggi? Niente. O poco niente. Oggi ci sono tantissimi siti e pagine di settore che per lo più promuovono e leccano il culo all’intera scena e che in quel periodo si contavano sulle dita di una mano. Ma nell’immaginario comune, quello della televisione e dei media generalisti RAP=DROGA. Alcuni forse hanno capito, altri hanno finto di capirlo o l’hanno accettato loro malgrado per convenienza. La sensazione che si respira, nonostante oggi il rap sia ovunque, è che l’Italia continui a non volerlo per com’è realmente e voglia una versione semplificata per famiglie.