Everybody’s Everything è la storia di una grande solitudine

È un pugno allo stomaco Everybody’s Everything, il documentario sulla vita di Lil Peep. Se sei un suo fan sfegatato potrai vedere i momenti epici della sua carriera, piangere e commuoverti quando incontra i fan, o quando canta con voce rotta Cocaine, sorriderai quando lo vedrai alla fashion week londinese e piangerai quando verrà trovato il suo corpo senza vita.

Se al contrario non sei un suo fan sfegatato, nel documentario troverai esattamente quello che magari con distrazione hai letto sui giornali. I tatuaggi, gli abiti eccentrici, i capelli colorati, la droga e l’unico epilogo possibile: la morte per overdose.

 

Ma nel mezzo c’e una storia di grande solitudine. Era solo Lil Peep, era solo anche in mezzo a decine di persone. È passato dall’essere un bambino spensierato, a un adolescente che non vuole uscire dalla sua camera, a una star di 21 anni che, nonostante vivesse con molti amici, doveva chiudersi nell’armadio per piangere. Lì inizia la linea di confine che divide Gus da Lil Peep. La bontà e la generosità decantata dal nonno e dai suoi stretti collaboratori, il sentirsi in colpa per avere più degli altri, il condividere qualsiasi cosa, soldi, oggetti, la casa e nonostante questo trovare rifugio solo nelle droghe.

C’è un Lil Peep strafatto che sale sul palco barcollante e che in qualche modo riesce a portare a termine l’esibizione e c’è un Lil Peep che canta Witchblades e ti accorgi che il modo in cui urla Switchblades, co-caiiiine fa uscire tutta la tristezza e la solitudine che c’è dentro di lui. Ed entra nell’anima di chi è lì ad ascoltarlo.

 

 

 

 

Mostrava il suo carisma attraverso il suo cuore spezzato e la sua solitudine e questo era palpabile. Era evidente che sarebbe diventato una star, ma era altrettanto evidente il triste epilogo che ha avuto la sua vita. Era solo, dentro e fuori, la droga era la sua unica compagnia ed è morto in solitudine. Da solo su quel pullman in overdose per quattro ore prima che i suoi amici si accorgessero di lui e della sua condizione. E i segnali c’erano tutti, anche prima che pubblicasse su Instagram un post in cui diceva che stava per crollare sotto il peso di essere “everybody’s everything” esattamente il giorno prima della sua morte.

In questa storia di solitudine, fa impressione vedere il bambino biondo sorridente che era affiancato all’immagine di un ragazzo che pippa cocaina. O vederlo sorridere insieme ai suoi amici e poi sul palco che sbiascica. È un’altalena la sua vita e probabilmente anche la sua anima. Era tormentata nella musica e nella realtà. Ma al tempo stesso aveva un carisma tale, una sensibilità in grado di catturare al punto che era già scritto che sarebbe diventato the next big thing, esattamente come era già scritto il finale della sua vita.

 

Sebastian Jones e Ramen Silyan hanno saputo catturare e descrivere l’anime di Lil Peep e di Gus e il ritratto di un artista come ne nascono pochi, ma con una solitudine interiore ed esteriore che è stata come una condanna.

 

 

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