Rap e criminalità: la storia di Mattia Verani in arte Parola Vera
Settimana scorsa Wayne, ospite a Radio M2O, ha sottolineato come in Italia sia impossibile che un rapper usi armi vere e arrivi addirittura a sparare. Secondo Wayne, infatti, fa tutto parte di un atteggiamento da gangster, una cosa più da poser, che una reale criminalità e una reale appartenenza a determinati contesti.
Nella maggior parte dei casi è così. Però ci sono situazioni e quartieri, come San Siro di Milano, dove un rapper emergente, K24K, è stato recentemente coinvolto in una sparatoria, gli hanno sparato e ha sparato ed è stato arrestato.
Certo, non stiamo parlando della scena rap italiana, nè del cosiddetto mainstream, che parola orrenda, ma è giusto per rendere l’idea, stiamo parlando di aspiranti artisti e situazioni, che seppur reali, sono lontane dal rap che conosciamo, siamo soliti ascoltare e scala le classifiche.
Se parliamo di rap e criminalità, è interessante la storia di Mattia Verani in arte Parola Vera, classe 1987, di Firenze, che è stato per diversi anni membro di spicco della Tullo Soldja.
Parola Vera ha collaborato sia con Inoki nel brano Così la vivo, sia con Emis Killa in Zara, e lo scorso anno ha pubblicato il disco Dalle Ceneri per la label Dome Recordings.
Nel 2014 Parola Vera ha sparato a un uomo ed è stato arrestato e condannato per tentato omicidio.
In merito alla vicenda si legge su diversi media che Mattia ha sparato a un ragazzo di colore, uno spacciatore, perché avrebbe venduto la dose che ha ucciso un suo amico e perché lo avrebbe poi accusato di aver fatto il suo nome alla polizia, dandogli di fatto dell’infame.
Si tratta quindi di principi e rispetto e di un regolamento di conti. Il codice della strada che non può essere infranto.
Ho parlato con Mattia nei giorni scorsi e in merito al reato che ha commesso nel 2014 mi ha detto “le persone non capiscono che il rispetto è importante, qualsiasi sia il contesto e lo status sociale.
Ho visto che il ragazzo ha messo la mano in tasca per tirare fuori la lama o il ferro, e io già ero stato accoltellato l’anno prima, quindi ho preso la pistola e ho pensato che era meglio un brutto processo di un bel funerale. E ho sparato. Per fortuna non è morto, è stato salvato dall’ambulanza e io sono stato arrestato. Mi hanno dato 10 anni per tentato omicidio e li ho scontati praticamente tutti.
Le pene però non si finiscono mai di scontare per chi ha tante cose come me, c’è sempre una spada di Damocle sulla testa, però ora sono molto più rilassato e concentrato sui miei obiettivi futuri”.
Cosa ne pensi di quello che ha detto Wayne a Radio M2O?
“Io penso che prima di fare dichiarazioni così definitive, prima di dire mai o di fare di tutta l’erba un fascio, bisogna pensare che se non l’hai visto fare alle persone che hai intorno o ai rapper che conosci, non vuol dire che non possa mai succedere o non sia successo. Questa scena italiana è un po’ fake, prima contava solo l’essere real, se rappavi cose che non facevi un tempo non salivi neanche su un palco, perché la gente ti spurava in faccia. Ora è tutto il contrario.
Forse Wayne avrebbe potuto informarsi o chiedere a chi conosce la strada veramente e sa che non è così impossibile che possa accadere di nuovo.
Un conto è se spari a una persona perché vuoi fare il personaggio rap, e un altro è se tu sei già così e dopo inizi a fare rap. Devi essere ciò che sei e non devi mentire.
Secondo me ci saranno altri ragazzi che vengono dalla strada e poi iniziano a fare rap che potrebbero macchiare la loro fedina penale con reati di questo tipo.
E non è un vanto. Assolutamente. Io nei miei testi non parlo mai di queste cose, se non qualche frase o accenno, perché vantarsi di queste cose è da sfigati. Io credo che quando le cose si fanno davvero, siccome hai fatto piangere delle persone, hai fatto del male, hai versato sangue a terra, vantarsene non è bello. Puoi parlarne, magari a distanza di anni, mi piacerebbe per esempio riuscire a trovare il modo di raccontare quello che mi è successo in rima dando però il giusto senso”.
Per come è oggi la scena rap in Italia, soprattutto in zona San Siro a Milano, credi che sia impossibile assistere ad eventuali sparatorie?
“Sicuramente la zona di San Siro e Milano in particolare è diventata la città più pericolosa in Italia a livello di micro criminalità e gang e credo che non passerà molto prima che si passi dal cazzotto, alla cinghia, alla lama e si arrivi al ferro.
Questi ragazzi che vivono la strada e si avvicinano al rap vivono anche di serie tv e di Netflix e magari se si dovessero trovare a scegliere tra la galera e il contratto discografico, sceglierebbero la seconda. A meno che non si tratti di una questione di principio, ma in quel caso è una condizione nella quale ci nasci e non puoi farci niente”.
Cosa pensi quando senti rapper parlare di strada, armi, reati o atteggiarsi da criminali?
“Diciamo che riesco a capire se sono atteggiamenti forzati o reali, ma esistono delle situazioni nelle quali non è facile giudicare o dire che sono cazzate. Perché non è detto. Io parto dal presupposto che siccome io certe cose le ho fatte, non posso escludere a priori che anche altre persone possano trovarsi in determinate situazioni e possano fare quello che ho fatto io. Quindi non parto mai con l’idea di dire che sono tutte cazzate.
Si riesce comunque a riconoscere chi è nato in certi contesti da come ne parla. Può essere anche una persona che è molto vicina alla strada perché ha amici che la vivono e ne parla per osmosi, però di solito chi fa questo tipo di racconto lo dice.
Certo, a volte mi viene da ridere quando certi artisti parlano di armi, quando al massimo hanno tenuto in mano una soft air, è vero che in Italia il 90% della scena è fake e quando sento parlare di armi sono sempre titubante, ma avere il dubbio non vuol dire che siano tutte cazzate, esiste sempre il beneficio del dubbio”.