L’altra faccia di M¥SS KETA
Era un pomeriggio di ottobre quando mi trovai davanti a un caffè in zona Porta Venezia con MYSS KETA, fin da subito noto la sua immancabile maschera e penso “beata lei che non ha il problema di doversi truccare ogni volta che esce di casa”. Era da tempo che aspettavo di incontrarla, un po’ perché il suo immaginario fatto di provocazione, di abiti dal richiamo soubrette anni ’80 mixati con un quel non so che di drag queen, mi affascinava molto e un po’ per quella maschera che volutamente nasconde il volto per far sì che la voce e i pensieri siano più importanti e abbiano la meglio sull’aspetto fisico. L’ho contattata sulla mail riportata sul suo profilo Instagram e lei mi ha risposto in terza persona, come se mi stessi interfacciando con una presunta manager o assistente, ci siamo scambiate il numero, che fino al nostro incontro credevo essere di quella fantomatica terza persona. L’aspetto in Via Tadino, la vedo arrivare da lontano e lei subito indossa la mascherina d’ordinanza. Lì capisco che via mail e whatsapp ho sempre parlato con lei e non con una manager misteriosa, ma perché fingere di essere qualcun altro via mail? Resterò con il dubbio. Chiacchieriamo a lungo davanti a un caffè, é una ragazza molto giovane, probabilmente anche inesperta. Per vari motivi, non dipendenti da me, l’intervista tarda ad uscire e lei inizia a mandarmi mail, sempre dall’indirizzo che credevo appartenesse a una manager/assistente, scrivendomi “oh ma l’intervista?”, era diventata parecchio insistente e a tratti maleducata. Le ho spiegato che non dipendevano da me i lunghi tempi, visto che scrivevo per un altro magazine in cui la priorità era il rap, ma continuava a rispondere in modo sempre più maleducato, tanto che ho scritto l’intervista a forza e ovviamente una volta pubblicata non ho ricevuto neanche un grazie.
Tornando a quel pomeriggio e al nostro caffè, inevitabilmente abbiamo parlato subito della sua esperienza al Red Bull Culture Clash e delle critiche che le sono state rivolte a proposito della sua partecipazione insieme al team Milano Palm Beat sul fatto di non essere rap, come gli altri team presenti. “Non ho mai dichiarato di essere un’MC, di essere la più figa, di essere una che fa le gare di freestyle, non l’ho mai detto e non mai voluto esserlo. Io più che dalla tradizione rap arrivo dalla tradizione vocalist. A proposito della partecipazione al Red Bull Culture Clash, secondo me è stata una cosa molto coraggiosa da fare da parte di chi ha scelto le squadre, ma non è stata capita perché è un po’ troppo avanguardia per un pubblico che invece si aspetta ancora il rap tradizionale. Sono molto contenta di aver partecipato perchè la nostra partecipazione è stata anche molto rappresentativa dell’evoluzione che sta vivendo la musica e la modalità di approcciarsi al divertimento”.
Come definisci la tua musica?
“Io faccio la musica che voglio, la musica che mi va di fare. Spazio da tonalità elettroniche più blog/house all’elettronica più voguing, oppure a delle sonorità che richiamano più il rap, quello un po’ più old school. Non saprei dare una definizione specifica, anche perché l’ultimo Ep che ho fatto è super lounge, la cosa di cui sono contenta è che MYSS KETA fa la musica che vuole fare”.
Perché porti sempre la maschera?
“Perché solo con la maschera si può dire la verità. La maschera ti dà una libertà che non ti viene data altrimenti. Da una parte disumanizza, ma dall’altra umanizza perché rende quasi collettivo il personaggio, nel senso che chiunque con una maschera e degli occhiali può diventare MYSS KETA, quindi può riassumere una coralità di persone. Io sono molto appassionata al teatro greco, fatto di maschere che venivano indossate da diversi attori, ma ogni attore che indossava quella determinata maschera, diventava quella determinata cosa, ed è un po’ questo il concetto che voglio trasmettere. La maschera sicuramente non svela, ma rivela, nel senso che vai nel profondo e dici anche cose un po’ più scomode senza paura di farlo. Io credo che nel mondo di oggi è giusto che ognuno si esprima nella maniera e con la forza che vuole”.
Tu rappresenti molto il mondo di Porta Venezia, ti senti un’icona gay?
“Icona gay forse è troppo, definirmi così mi sembrerebbe troppo autocelebrativo, però mi sento molto vicina al mondo gay, queer e tutta quella scena, perché trovo in questo mondo un’accettazione di se stessi che secondo me è totale. Accettare se stessi, togliersi tutte le barriere e le gabbie è una cosa che sento molto vicina e credo di essere molto apprezzata da loro anche per questo. Il mondo gay e clubbing li frequento tantissimo e il mio sogno è di essere la madrina del Gay Pride, perché lo sento un universo molto vicino al mio con molti valori positivi comuni. L’immaginario visivo di MYSS KETA prende molto anche da Lady Gaga, da Madonna, da Lorella Cuccarini, Ether Parisi, Raffaella Carrà, cioè tutto quell’immaginario tv anni ’80-’90 di ballerine, cantanti, trasformismi. Raffaella Carrà, cioè tutto quell’immaginario tv anni ’80-’90 di ballerine, cantanti, trasformismi. Era un mondo in cui per una canzone si costruiva una scenografia, una coreografia, tutti i costumi dei ballerini, il costume della ballerina principale, a me quel mondo ha sempre affascinato, così come Madonna, il suo essere trasformista, perché è anche un sintomo di sentirsi sicuri anche facendo cose diverse e sentirsi a proprio agio in vari contesti”.