Finché c’è Noyz anche tu puoi fare il cazzo che ti pare nel rap
Lo dice Fabri Fibra verso la fine di Dope Boys Alphabet, il documentario su Noyz disponibile per soli tre giorni su Live Now.
Ed è vero. Ripercorrendo per più di un’ora e mezza la carriera artistica di Noyz, dai Truce Boys al nuovo disco, è chiaro l’impatto che ha avuto sulla cultura hip hop italiana. Quella cultura che oggi sembra morta, lontana, che forse per i pischelli più giovani è solo un racconto che ogni tanto esce dai discorsi dei “boomer”, ma che Noyz ha costruito. E se vedi il Noyz ragazzino, cresciuto tra gli emarginati, con il microfono, le rime, sulle panche al parco, la violenza e l’incazzatura nelle barre e nell’attitudine e se poi guardi il Noyz di oggi, vedi che la fama, il successo, i soldi, l’essere davvero una leggenda vivente del rap italiano, non l’hanno cambiato affatto.
Noyz è ancora quel ragazzino. Le sue rime non si sono piegate alle mode del momento, la sua attitudine non è cambiata, e lui resta, come dice Luchè “una colonna portante del rap italiano capace di farcela in un altro modo”. Il suo modo. E come lui davvero non c’è nessuno.
Perché è quel modo controcorrente, quell’attitudine di creare un film in bianco e nero quando tutti lo fanno a colori. È la visione di chi la musica la vive ancora nel profondo, in modo viscerale e non solo come mero business, o per fare la mega hit e milioni di streaming. Se vogliamo usare quei termini che andavano tanto di moda a inizio 2000, è la cultura underground portata nel mainstream. E solo Noyz l’ha fatto e sa farlo.
“Il nostro rap non è per business. Sì noi vogliamo i soldi per fare dischi e concerti, ma non voglio che il mio rap sia fatto di cazzate” – dice un giovane Noyz in Dope Boys Alphabet e sai che c’è? Che a 42 anni Noyz ha ancora questa attitudine.
Il suo rap non è mai fatto di cazzate. E non facile. È più facile seguire le mode, cavalcarle, che restare fedeli a se stessi, perché a un certo punto il rischio può essere quello di fare la parte del vecchio che fa rap da vecchi e per vecchi, ma Noyz non è mai caduto in questo limbo. Il suo microfono è un fucile che sparava 20 anni fa come oggi.
Nel documentario c’è tutto. Ci sono gli inizi, i palchi pieni di gente, il TruceKlan, i primi viaggi in macchina senza soldi per raggiungere Milano, le barre, le canne, le birrette, il porno, le grafiche, l’immaginario hardcore, il grande movimento hip hop che Noyz con il TruceKlan, ma anche con la Dogo Gang di Milano, ha creato in quegli anni. Un movimento hip hop, fatto non solo di barre, ma anche di graffiti e skate, di canzoni registrate in una stanzetta, di una ex stalla che diventa uno studio di registrazione, di un gruppo di ragazzi che sale sul palco come il Wu-Tang Clan e che crea una pietra miliare del rap italiano, Ministero dell’Inferno. Non solo un disco, ma un movimento, che a un certo punto non è solo hip hop, ma diventa punk.
Dei ragazzi che dalle panche al parco, attraverso la loro insoddisfazione, la musica vista come valvola di sfogo, le loro rime violente, il loro immaginario diverso da tutti gli altri, hanno conquistato prima Roma, poi Milano, poi l’Italia intera. Ci è voluto tempo, soldi spesi, sudore, notti insonni, alti e bassi, ma alla fine è tutto in quelle immagini. Nel documentario diretto da Marco Proserpio, entri nel mondo di Noyz e ti rendi conto come sia diventato l’ottavo re di Roma. Una leggenda vivente che non se la tira. Una star che non fa la star. Solo un MC, uno storyteller, ma uno dei più grandi che il rap italiano abbia mai avuto.
E se vuoi degli spoiler su Virus, ci sono anche quelli. Ci sarà Raekwon, membro del Wu-Tang Clan, ci saranno Ketama 126, Coez, Franco 126, Luchè e molti altri.