Anche la musica è all you can eat

Prezzo fisso, solitamente basso, abbordabile ai più e puoi mangiare tutto quello che vuoi. È questa la formula, che probabilmente ha preso spunto dai buffet gratis dove inevitabilmente ti rendi conto dove finisce la civiltà e inizia il riempirsi il piatto a più non posso, che va per la maggiore da anni ormai. E non solo nei ristoranti giapponesi, ma anche nella musica e nell’intrattenimento. Come in un sushi all you can eat, anche su Netflix, Prime Video, Now, o Disney Plus possiamo avere a disposizione a un piccolo prezzo mensile tutti i film e le serie tv che vogliamo. E lo stesso vale per la musica. Spotify è la piattaforma numero uno al mondo, anche se non è l’unica, e il concetto è sempre lo stesso. Una piccola spesa mensile e puoi ascoltare tutta la musica che vuoi. E così la musica diventa all you can eat, o se vuoi all you can listen.

E inevitabilmente perde di valore. Forse perché è poca la musica che esce oggi che ha realmente valore, che resterà nel tempo. Del resto abbiamo tutto a disposizione e se mi chiedessero di scrivere una lista con tutti i dischi usciti nel 2021, forse riuscirei a ricordare 10 titoli a malapena. Perché ne esce troppa, perché ne abbiamo un’infinità a disposizione e perché un disco di due settimane fa è già vecchio. Come una serie tv, una volta finito di vederla, passa all’altra. Come al sushi. Passi dalla tartarre agli uramaki, al sashimi e a fine pasto ti ricordi a malapena cosa hai mangiato.

E i dischi non vendono. E gli artisti le provano tutte per vendere. Facci caso, dischi su Amazon accompagnati dai più disparati gadget, dalle t-shirt, al frisbee, al maglione natalizio, perché il semplice autografo non basta più. E si arriverà al punto di Lacrim che ha messo banconote da 500€ in alcune copie del suo ultimo disco, come una sorta di lotteria. Alla fine qualcuno vincerà, ma in tanti ci hanno provato. È questo che conta. E alla fine si passerà dai gadget agli incontri. Metteranno nei dischi la possibilità di bere un caffè con l’artista. Che tristezza, no?

I dischi non vendono e non solo perché la musica è all you can eat, ma anche perché non si fanno più gli instore tour. Lì almeno per avere la foto con il tuo artista preferito il disco lo dovevi comprare. Ma ora c’è Dikele che con le sue interviste a teatro organizza una sorta di instore. Certo, perché per partecipare il pubblico deve aver comprato il disco, e quindi l’artista sa che almeno quelle 400 copie le ha vendute.

Perché è tutto così cheap che non ha più valore. E ascoltando Noi, loro, gli altri di Marracash e GVESVS di Guè ho pensato che entrambi hanno provato ad alzare l’asticella. Come a dire “sta roba si fa così e o la sai fare così, o vai a casa”. Come a ridare valore a sta musica, come a mettere dei paletti, perché come per il sushi, c’è chi mangia all’all you can eat da 28€ e chi in un ristorante alla carta da 100€. È il valore che conta. E c’è la musica cheap, quella che dura una settimana e che va per la maggiore e poi c’è la musica vera, quella destinata a restare, che oggi è più rara che mai. Così come c’è Zara e Balenciaga.

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