L’ultimo a morire di Speranza è solo rabbia?

Oggi sembra che ogni disco decente o quantomeno atteso dal pubblico diventi automaticamente il disco dell’anno. Ma sappiamo poi che fine fanno i vari dischi dell’anno… C’era sicuramente molta attesa per il debupt album di Speranza, L’ultimo a morire e ho letto persone scrivere “è il primo artista rap italiano a parlare di politica senza censurarsi o voler risultare politically correct”. Ok, fermati un attimo, a meno che tu non abbia iniziato ad ascoltare rap nel 2016, senza andare troppo indietro nel tempo, hai mai sentito parlare di Fabri Fibra o Fedez? Non mi sembra che i due si siano mai tirati indietro dal fare nomi.
In L’ultimo a morire troviamo al massimo il nome di Saviano e due barre di silenzio per le vittime di Gaza, se proprio vogliamo parlare di “avere il coraggio di fare i nomi” e non di fatti, vita vera e denuncia sociale di chi vive ai margini della società, perché di questo ce n’è da vendere.
Con questo non voglio sminuire il lavoro di Speranza che ritengo un album con i contro cazzi, ma da qui a gridare all’innovazione o a dire “è stato il primo” ce ne passa.

L’ultimo a morire parte, fin dal titolo, con un bellissimo gioco di parole. La speranza è l’ultima a morire, recita il detto, e Speranza è l’ultimo a morire. Grida la violenza, la criminalità e il disagio con il quale ha vissuto, ma non saranno questi ad ucciderlo, lui sarà l’ultimo a morire perché ha trovato il modo per sopravvivere.



In L’ultimo a morire c’è esattamente quello che ti aspetti da Speranza: la verità delle persone che realmente vivono la strada, di quelle che non si limitano a raccontarla, ma che appartengono ad essa; la rabbia degli ultimi, dei dimenticati e degli invisibili; la rivalsa sociale che sfocia in rancore. È un disco talmente duro e spesso incazzato che è difficile digerirlo al primo ascolto e restarne indifferenti, perché Speranza non è quello che racconta le storie, ma quello che le rappresenta. E così può parlare di spaccio, di criminalità, può usare i termini del linguaggio tipico di quella gente e risultare credibile arrivando a rappresentarla al meglio. Può urlare il suo disagio, perché ha attitudine da vendere. Ed è per questo che piace, perché non ci va giù leggero, al contrario fa della violenza una sorta di rito di purificazione.



Il disco, nonostante il forte impatto, non è perfetto, così come lo è la vita raccontata da Speranza. È duro, grezzo e con alcuni angoli che ancora devono essere smussati.

Ci sono basi che spesso sfociano verso il cupo e in un certo senso stridono e ci sono featuring ben poco azzaccati. Fa strano sentire che Tedua non ha dato il meglio di sé, o un Guè Pequeno quasi oscurato da un muratore casertano, o un Massimo Pericolo che non risulta all’altezza, nonostante sia indubbiamente il featuring migliore. È come se risultasse difficile entrare nel mondo e nel mood di Speranza e trovare lì il proprio spazio.

Speranza, ovviamente, non si limita a parlare di disagio e criminalità per 14 tracce, ma lascia spazio anche un suo lato più emotivo e intimo, come Camminante, A la muerte, Iris e Russki Po Russki, che possono essere definite come le tracce che non ti aspetti da Speranza, ma che mostrano l’altra faccia della medaglia. Un po’ come quei dolci duri all’esterno, ma con il cuore cremoso. Quindi, ascolti L’ultimo a morire, ti becchi una bella martellata, che anche se sei in un momento tranquillo e pacificamente zen, ti incazzi pure tu, poi ti gusti il dolce dal cuore morbido e alla fine resti con un dubbio.
E il dubbio è questo: nell’intervista a L’Assedio con Daria Bignardi Speranza parlava sì della sua vita fatta di vita sregolata e frequentazioni pericolose e criminali, che però a suo dire lo hanno portato ad allontanarsi da quella vita, ma nel disco è quella la vita di cui parla. La domanda quindi è: Speranza si è davvero lasciato alle spalle quella vita, o i suoi racconti sono il baluardo di una sorta di appartenenza (seppur ideologica) dura a morire? Oppure fa tutto parte della sua dimensione artistica?

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