Back in the days: Club Dogo, Noi siamo il club

Il 5 giugno 2012 usciva Noi siamo il club, il sesto disco dei Club Dogo, che arrivò letteralmente come un pugno in faccia.

Inutile dire che già allora si diceva prepotentemente “non sono più quelli di Mi Fist“, ma neanche quelli di Penna Capitale o di Dogocrazia. Dopo Che bello essere noi, i Club Dogo, che stavano già lavorando a progetti solisti, tornano con un disco che fu duramente criticato. 

 

Nessuno ha mai messo in dubbio la tecnica di Jake La Furia, Guè Pequeno e Don Joe e neanche il loro peso sulla storia del rap italiano, né tantomeno le loro innovazioni, ma Noi siamo il club ha riscosso in quel periodo più critiche che consensi.

 

La critica era d’accordo nel dire che i Dogo si stessero progressivamente svuotando di contenuti, come se non riuscissero ad uscire dal quadrilatero soldi – donne – successo – haters che si erano progressivamente creati. Sentivano il bisogno di continuare a risultare scomodi, come in Sangue Blu, per esempio, ma erano arenati nei loro argomenti. Quasi come se non riuscissero più a partorire niente di meglio di “Tutti i soldi che ho incassato li ho già spesi, perché la vita è corta come il cazzo dei cinesi” o “Ringrazio per tutto il supporto lo zoccolo duro, e poi ringrazio pure tutte le zoccole dure“.

 

Facciamo finta di essere nel 2012, siamo Dogofieri, ascoltiamo i Dogo dagli inizi, abbiamo seguito la loro evoluzione e ci troviamo ad ascoltare Noi siamo il club per la prima volta. Non storiciamo un po’ il naso?
Un po’ come se i Dogo degli inizi avessero dissato quelli attuali risultando ossessionati dalla loro popolarità che esibiscono costantemente in tutto il disco, quasi come se fosse il ridondante fulcro contenutistico della loro produzione. È un po’ come dice Jake La Furia: “Ho le palle belle vuote e le tasche belle piene“, come se prima fossero motivati dalla rabbia e dal senso di rivalsa e a un certo punto si fossero seduti e adagiati nel loro nuovo status.

 

 

Ma il fulcro risiede nel titolo: Noi siamo il club, che non vuol dire noi siamo i Club Dogo, ma noi facciamo il tipo di musica che trovi nei club.

Capito questo, capisci il disco. Un disco che è come diviso a metà, tra brani più da club appunto, come Chissenefrega (in discoteca) e la title-track Noi siamo il club, che sono veri e propri club banger, inni zarroganti confezionati con maestria da Don Joe, proprio come il singolo L’erba del diavolo, che è intriso di electro e sonorità scurissime.
Nella parte dance risiede anche La fine del mondo, che è come quando in un film avviene la catastrofe sul dancefloor.

 

 

 

 

Poi c’è l’altra metà, quella più street con Ragazzo della piazza in compagnia di Ensi, che in quel periodo elargiva parecchi featuring, Sangue Blu con J-Ax, altro brano fortemente criticato all’epoca, c’è addirittura chi ha detto che Ax fosse stato snaturato in quel featuring, ma è a tutti gli effetti l’episodio rock del disco, e ricorda un po’ Per la gente. Non manca il tormentone estivo: P.E.S., e neanche momenti più intimi come Ciao Ciao, Se non mi trovi e Tutto ciò che ho, che per molti è stata la versione Dogo di Stan di Eminem, nonostante i Dogo non avessero un fan folle.

 

 

 

 

Noi siamo il club ci porta nelle atmosfere tipicamente urban e notturne di una Milano sempre meno citata nei testi, ma che resta indelebile sullo sfondo, ed è la dimostrazione concreta che i Club Dogo erano ancora fortissimi e in grado di fornire una panoramica completa della musica che hanno fatto fino a quel momento.

Partendo dal presupposto che i Club Dogo nel 2012 avevano pochi rivali in fatto di stile, rime, flow, sonorità e che in molti hanno provato, con scarsi risultati, a emularli, Noi siamo il club non è tra i loro lavori migliori. È un disco che divide e ha diviso parecchio, ma che può risultare piatto di contenuti. Certo, oggi abbiamo una piattezza tale che ci sembra di ascoltare un letterato, ma per l’epoca era privo di contenuti. Un disco fatto per diversi, divertire e compiacere la fascia adolescenziale dell’epoca, un disco che però a distanza di otto anni è rimasto. E c’è da chiedersi il perché. Forse perché hanno smesso di fare musica come Club Dogo facendo sì che restassero una leggenda del rap osannata da tutti.
Perché dico questo? Perché di quel disco ad oggi ricordiamo Noi siamo il club, Chissenefrega (in discoteca), P.E.S. e Tutto ciò che ho, ovvero i brani che racchiudono l’essenza del disco stesso. O forse perché è un disco che per essere capito e assimilato a fondo ha bisogno di ascolti dilatati negli anni e a quel punto capisci che alcune tracce restano attuali anche a distanza di quasi un decennio. E questa è la forza della musica: RESTARE.

 

 

 

 

Noi siamo il club è stato innovativo dal punto di vista del suono, una cosa che raramente si poteva sentire all’epoca, mashup e contaminazioni inedite per il rap italiano di quegli anni e che ha fatto sì che i Dogo, nonostante le critiche, fossero ancora una volta innovatori di un genere, di un suono e di uno stile, che è e resterà il loro marchio di fabbrica indelebile.

 

 

 

 

Vi lascio con un’intervista del 2012, nella quale Jake La Furia, Guè Pequeno e Don Joe raccontavano Noi siamo il club.

 

 

Lascia un commento