Fedez: “chi disturba mi fa simpatia”

Ho letto la prefazione del libro La musica è cambiata. La vera storia di Soundreef, la startup che ha messo fine a un monopolio secolare scritta da Fedez e mi sento di condividervela. Per due motivi: primo perché leggendo queste parole ho trovato molto di me, chi dice la propria opinione sempre e comunque e fa sentire la propria voce a discapito di tutto e tutti merita rispetto, stima e attenzione. E secondo perché è uno spaccato interessante di un personaggio che spesso e volentieri non è stato capito, ma che forse più di altri si è sempre mostrato per quello che è senza costruirsi un personaggio. Siamo tutti esseri umani, con i nostri pregi e i nostri difetti, al di là del ruolo che ricopriamo, del lavoro che facciamo e di quanti soldi abbiamo sul nostro conto in banca.

 

 

L’idea da cui sono sempre partito è: le cose possono non andare bene. Il motivo principale per cui le cose possono non andare bene sono le persone: di loro mi fido fino a un certo punto. L’ho sempre vista così, non posso farci niente.

Infatti se dovessi scegliere la parola che mi sono sentito dire più spesso sarebbe “cinico”. Davvero, è impossibile contare quante persone mi hanno definito così nel corso degli anni, e avevano ragione. Spesso mi sono sentito cinico.

 

Faccio una vita che rende difficile distinguere qualcuno che ti avvicina con sincerità da qualcuno che vuole usarti in qualche modo, ma la mia diffidenza mi ha sempre aiutato a individuare le figure troppo interessate a Fedez e per niente a Federico.

Per come la vedo io, c’è differenza fra lavorare con un artista e scavare nelle sue risorse come se fosse una specie di miniera d’oro umana da cui attingere. Non sono certo l’unico a cui capita: il mondo dello show business è fatto così e ormai l’ho imparato tanto tempo fa. Essere cinico, tutt’al più, mi aiuta a tutelarmi, se così si può dire.

 

Musica a parte, è una cosa che mi porto dietro da sempre. Con me le grandi promesse non hanno mai funzionato e nemmeno le fantasie troppo ardite. Mi piace sognare, ma faccio davvero troppa fatica ad addormentarmi e dimenticare la realtà. Credo sia sempre stato il mio modo per proteggermi dalle delusioni, ma a giudicare dalla quantità di volte in cui, come tutti, sono stato deluso, non si può dire che abbia funzionato granché.

 

È un disincanto automatico che si incastra molto bene con la mia seconda, diciamo così, inclinazione: dire la mia sempre e comunque. Non posso dire che discutere mi piaccia, tuttavia lo trovo uno dei modi più sinceri per mostrare il proprio vero volto e ottenere lo stesso da chi ti sta davanti. Da piccolo non mi perdevo neanche mezza occasione per arrivare a un confronto verbale: con i professori, con gli amici, con i parenti, con le ragazze. Inutile dire che non tutti i miei rapporti sono sopravvissuti alla mia adolescenza, ma va bene così.

 

Quando sono diventato un personaggio noto le discussioni sono aumentate esponenzialmente, stavolta non solo per colpa mia. Se qualcuno volesse avere una dimostrazione pratica: basta una rapida ricerca su Google scrivendo “fedez litigi” per vedersi apparire davanti una serie di link potenzialmente in grado di circumnavigare il pianeta, se li si mettesse tutti in fila. Personaggi televisivi, politici, musicisti: una guerra infinita di opinioni, di tweet, di post.

 

Se guardo oggi molti di quegli articoli e di quelle polemiche, sorrido: adesso mi appare evidente il modo in cui venivo provocato o distorto, solo per ottenere qualche visualizzazione. Nessuno aveva mai avuto voglia di confrontarsi davvero con me su qualche tema, ma questa è un’altra storia. La verità è che mi piace esprimere quello che penso, da che ho memoria l’ho fatto ogni volta che ho potuto.

 

Ho frequentato il liceo artistico perché ero convinto che il disegno fosse la mia strada e anche se c’erano persone molto più dotate di me in questo, l’ho creduto finché non è finalmente arrivata la musica nella mia vita. Da lì è seguito tutto il resto.

Ho capito immediatamente che lì ero davvero a casa. All’inizio la mia attenzione era molto più sui testi che sulle melodie, mi ero reso conto che in quel modo potevo dire quello che volevo. Era come se il mio vocabolario fosse raddoppiato di colpo.

 

Paradossalmente i video, i post, i tweet che scrivo, non sono così diversi dalle canzoni: dico quello che mi va, nel modo in cui mi va. E questo a volte suscita delle reazioni. Altre volte invece vengo semplicemente provocato e non riesco a trattenermi dal rispondere. Quando funzioni così, tutta l’atmosfera intorno a te diventa infiammabile e lo stress fa da scintilla.

 

C’è stato un periodo in cui ho davvero creduto che il web potesse essere la cassa di risonanza perfetta per le mie idee, ma col tempo ho diminuito i miei interventi pubblici. Cerco di moderarmi, essendomi reso conto di come le mie riflessioni diventassero in molti casi appigli per attacchi sterili o endorsement politici di cui non avevo bisogno. Però continuo a pensare che noi tutti abbiamo bisogno di confronto, di crescere sotto miliardi di aspetti. Magari non sarò uno a cui guardare come esempio, ma per quel che vale non smetterò mai di puntare il dito contro persone, situazioni o comportamenti che ci affossano come individui e come società, invece di proiettarci avanti.

 

Un altro problema di chi, come me, proprio non riesce a stare zitto, è che dopo un po’ rimani solo. O almeno è questa la sensazione che hai. Quando l’ennesima discussione è finita, quando i giornali smettono di parlare della polemica di Fedez con questo o quello, allora rimani solo. E ti senti pure un po’ fesso, per qualche secondo, perché avevi immaginato di aver espresso qualcosa di sincero e condivisibile, e invece.

Anche in questo caso il mio cinismo mi da una mano, quando mi capitano situazioni così mi faccio una risata e mi dico che fanno parte del lavoro che mi sono scelto. Così va la vita (cit.). Ma non smette di darmi fastidio.

 

Ecco perché cerco di tenermi vicine le persone che in qualche modo sono simili a me. Non simili nel cinismo, ma simili nell’essere sinceri e diretti. Mi piacciono le persone che parlano in modo sfrontato, quelle che se ritengono di essere dalla parte della ragione se ne fregano di scontrarsi con situazioni più grandi di loro o modi di pensare vecchi come il mondo. Mi piacciono perché mi fanno sentire meno solo, e perché credo che gli sfrontati siano una fonte di ispirazione di gran lunga maggiore rispetto ai bravi soldatini.

 

In sintesi, chi “disturba” mi fa simpatia.

 

Soundreef è una realtà che disturba, che dà fastidio. Per un numero a tre cifre di motivi.

La prima volta che ho sentito parlare di loro ero a cena con degli amici musicisti. Si parlava di questa nuova società di collecting che si stava facendo strada nel panorama musicale e che secondo qualcuno avrebbe dato filo da torcere alla SIAE. Io ne sapevo poco, ma dal quel momento cominciai a interessarmi parecchio della questione. Era un lato del mio lavoro che non avevo mai approfondito e mi sono subito reso conto di che errore fosse stato. A quei tempi ero iscritto alla SIAE come tutti, era un passo automatico nel momento in cui iniziavi a lavorare nell’ambito della musica. Studiando ho capito che stava proprio lì il problema: nel “vecchio” mondo della musica se sei un artista agli esordi per prima cosa ti iscrivi alla SIAE. Punto. Senza farti troppe domande.

 

Perché? Perché non esistono alternative, nemmeno ci pensi, i tuoi colleghi ti dicono “È così che devi fare” e tu lo fai perché non conosci altre opzioni. Poco male se poi ti rendi conto che se ci fossero altre strade magari i tuoi interessi potrebbero essere curati in modo diverso, potresti valutare un approccio più giusto per te, per il tuo modo di lavorare, di vedere la vita magari.

Ma questo, come ho detto, era il vecchio mondo.

 

Questi ragazzi un’alternativa l’avevano creata davvero: non mi ci è voluto molto per capirlo. La loro proposta era in qualche modo rivoluzionaria: rendicontazioni analitiche dei brani, pagamenti molto più rapidi del sistema tradizionale, trasparenza totale su tutti i passaggi della “filiera”.

 

Mi piaceva l’idea di poter gestire i flussi del mio lavoro in modo davvero completo, avevo la sensazione che avrei potuto monitorare i passaggi dei miei brani nel dettaglio. Mi faceva sentire più padrone delle mie opere e meno ingranaggio di un meccanismo che detta le regole.

 

Ma soprattutto, quello che mi piaceva di più di Soundreef era la sfrontatezza. Loro se ne fregavano che in Italia ci fosse un monopolio nel collecting da 140 anni, se ne fregavano che proponendo la loro alternativa avrebbero aperto il vaso di Pandora, scatenando un contrasto con la concorrenza, con le istituzioni, con l’ordine precostituito delle cose.

 

In qualche modo Soundreef è l’amico che non si sottrae al dibattito e non si piega. È quello che dice la sua anche se rischia di essere impopolare.

Soundreef, nell’industria della musica, è il mondo nuovo. Ed io ho deciso di farne parte.

 

 

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