Il pozzo avvelenato degli streaming dove a guadagnarci è solo Spotify

È un pozzo avvelenato ma tutti continuano a buttarcisi dentro e a nuotare nella speranza di un guadagno. Ma chi guadagna da tutto questo? Spotify. Ebbene sì, perché nonostante Fimi abbia dichiarato un consuntivo semestrale in crescita del 5% rispetto allo stesso periodo del 2018, a favorire questo incremento è per 3/4 il consumo digitale, mentre il fisico è ancora in calo.

 

L’obiettivo è semplice: eliminare il cd fisico. Sono molte le aziende che producono dischi che stanno chiudendo, e le stesse case automobilistiche stanno producendo automobili senza il lettore cd e solo con il supporto digitale. A cosa serve quindi stampare e mettere sul mercato cd? Poco niente. Le vendite sono sempre in calo, tranne rari casi dove, grazie agli instore, vengono venduti più prodotti fisici, ma resta lo streaming la maggiore fonte di guadagno e resta Spotify leader del mercato italiano. Va da sé che la piattaforma abbia contrastato in tutti i modi un’iniziativa come quella di Fedez, per esempio, che ha venduto il merchandising del suo disco Paranoia Airlines insieme al cd, perché da questa operazione Spotify ha guadagnato ben poco. Altra conseguenza sono gli accordi stretti dalle major con Spotify Italia, ogni etichetta discografica, infatti, è proprietaria di una o più playlist editoriali nelle quali l’editore inserisce in forma massiccia artisti rappresentati dall’una o dall’altra major. 

 

Chi ne fa le spese? Ovviamente gli artisti indipendenti, gli emergenti e interi generi musicali, come il jazz, o l’alternative rock per esempio, ma anche tutti quegli artisti che hanno una rotazione radiofonica e televisiva. Spotify Italia sta da anni facendo una guerra alla radio, perché il suo obiettivo è quello di sostituirsi ad essa, quindi tutti gli artisti che hanno un’alta rotazione radiofonica e televisiva, sono di fatto penalizzati sulla piattaforma. In che modo? Inserendo i loro brani in pochissime playlist editoriali e riducendo come conseguenza diretta i loro streaming e le loro posizioni in classifica Fimi.

 

Ma come funziona Spotify? L’utente clicca e accede a un’inesauribile miniera di note, si sofferma su una raccolta preconfezionata di brani e in un attimo diventa cliente a sua insaputa. Perché se naviga gratis PUMA (Playlist Usage Monitoring Analysis) lo inonderà di pubblicità ad hoc, i famosi brani che compaiono anche se non li abbiamo cercati, voluti o selezionati. Se invece opterà per un abbonamento premium e pagherà i suoi 9,99 euro al mese, permetterà a sua insaputa a Spotify di pagare i diritti prevalentemente alle case discografiche e agli artisti messi in evidenza nelle playlist editoriali. E gli altri? Si devono accontentare delle briciole: circa 0,004 centesimi ad ascolto. Un’elemosina destinata a stroncare sul nascere chiunque voglia fare musica che si discosti dal genere urban, trap o pop dominante.

 

Se sei un emergente o un artista indipendente puoi anche avere l’illusione che Spotify ti permetta di avere ascolti o visibilità, ma è solo un’illusione perché di te non si accorgerà nessuno fino a quando non entrerai in quel circolo e nuoterai in quel pozzo avvelenato.

 

Attenzione però: i capi del famoso pozzo avvelenato non sono solo quelli di Spotify, ma anche quelli di Apple, che sta cercando in tutti i modi di contrastare la leadership italiana di Spotify. Apple, infatti, ha abbandonato il non più redditizio iTunes dei download per concentrarsi sugli streaming e ha acquistato Shazam, per riconoscere i brani che ascolti al supermercato e propinarteli in astute playlist. Anche in questo caso ovviamente niente è casuale.

Sono sempre le major a comandare il gioco e l’unico modo per uscirne sarebbe quello di avere una piattaforma incorruttibile a tutti gli effetti, o diminuire l’impatto degli streaming in classifica Fimi, oppure dare una spinta tramite mosse di marketing alla vendita dei cd, o puntare sui vinili. Ma vendendo 100 long playing un artista guadagnerebbe l’equivalente di 368mila ascolti su Spotify o 2milioni e mezzo di visualizzazioni su YouTube.

 

Quindi di fatto il mercato è in crescita del 5%, ma a guadagnarci è solo Spotify. 

Lascia un commento