11/8/1973 quando tutto ebbe inizio

11 agosto 1973: nasce l’hip hop, con un DJ set di DJ Kool Herc, nel Bronx a New York. La data corrisponde a un avvenimento reale, al 1520 di Sedwick Avenue, nel West Bronx, DJ Kool Herc cominciò a mettere dischi a una festa organizzata dalla sorella maggiore, aveva solo 18 anni ed era già un colosso. Il DJ, il cui pseudonimo era tratto dalla marca di sigarette Kool e da Hercules, grazie alla sua mole, cominciò col reggae e notò che di quei circa 200 invitati non ballava proprio nessuno. Pare che, non appena scelse di suonare “It’s just begun”, pezzo dal titolo profetico del Jimmy Castor Bunch, il party decollò. Da quella sera, per circa cinque anni, una nuova forma di controcultura si affermò a New York, prima di decollare per sempre verso il mainstream e diventare un genere musicale a pieno titolo.

Che questa sia in effetti la data di nascita dell’hip hop è una convenzione, che però gli storici del genere considerano attendibile.

Nato come una delle quattro discipline dell’Hip Hop, il movimento culturale sorto per dare forma e visibilità all’identità giovanile dei ragazzi afroamericani, il rap si è trasformato nel fenomeno musicale più importante, disturbante e di successo dai tempi del rock and roll. Gli anni Duemila in particolare rappresentano per il rap statunitense un periodo complesso e controverso, con la sua età dell’oro ormai alle spalle e i momenti drammatici attraversati con la tragica uscita di scena di Tupac Shakur e The Notorious B.I.G., assassinati in circostanze mai chiarite.

Oggi manca la conoscenza di questa cultura?

«Sicuramente. Ma in parte è normale e comprensibile. Le generazioni più giovani sono cresciute con questa musica, anzi, con quello in cui, almeno da noi, è stata trasformata e magari faticano a coglierne l’aspetto più dirompente. Inoltre la commercializzazione del rap ha fatto sì che molti rapper non provengano da crew e non siano legati alle altre discipline dell’Hip Hop. I primi rapper, invece, anche in Italia venivano quasi tutti dal mondo del writing».

A rispondere a qualche domanda sull’hip hop é Andrea Di Quarto, giornalista e esperto di hip hop, nonché autore dei libri La Storia del Rap, volume uno e due, che consiglio a tutti di leggere.

Da Kool Dj Herc e Africa Bambaata com’é cambiato l’hip hop negli anni successivi?

«È cambiato tantissimo. Inizialmente si rappava su basi essenzialmente disco, poi sono arrivati i Run-Dmc e Rick Rubin che hanno introdotto il rock ed eliminato le melodie. Poi c’è stata la fase Native Tongue, con i gruppi che attingevano a piene mani al jazz, e poi ancora Los Angeles ha introdotto il gangsta rap e il g-funk, Kanye West ha portato dentro il Rap Game una cultura musicale e una complessità che non si era vista prima, il Sud che riportato in auge la party music alzando di molto l’asticella della sensualità, fino ad arrivare ai ritmi di oggi molto club oriented. Il rap si è sempre evoluto e lo ha sempre fatto per sopravvivere. Ha superato ogni sorta di tempesta ed è ancora qua dopo quasi cinquant’anni».

Run DMC, Beastie Boys e Public Enemy sono stati i primi gruppi rap, che contributo hanno dato?

«Fondamentale. I Run-Dmc furono i primi a realizzare dischi fatti solo di beat, senza melodia, e con campionamenti rock che erano usuali nei club, ma non su vinile. I Beastie aprirono questo mondo ai bianchi, anche se inizialmente lo loro forza musicale fu sottovalutata, mentre i Public Enemy con il tappeto sonoro della Bomb Squad dimostrarono la forza rivoluzionaria che questa musica poteva avere. Dissero a una generazione che doveva smetterla di vergognarsi di avere la pelle nera e di cominciare ad esserne fiera».

Fin dagli albori negli usa c’è sempre stata la presenza di esponenti del rap femminile, quali sono i nomi che per te hanno dato il maggiore contributo? E secondo te perché in Italia manca questo?

«Lo stesso rap deve la sua nascita, come fatto discografico, a una donna, Sylvia Robinson. Fu lei che ebbe l’intuizione che quei “dj parlanti” potevano funzionare su disco malgrado le stelle di allora, a cominciare da Grandmaster Flash, non fossero d’accordo ritenendo che fuori dal suo contesto live il rap non avesse senso. Quelle tecnicamente più brave a mio modo di vedere erano Laurin Hill e Bahamadia, ma colei che ha lasciato il segno più profondo è senza dubbio Missy Elliott, che è stata anche un ottimo produttore. Penso che neppure nel rock ci sia una figura equivalente per completezza. In quanto all’Italia le donne, purtroppo, sono meno emancipate che in altri paesi, ma è un problema del Paese non solo del rap. Il fatto che ci siano ragazze come te e altre, che scrivono di hip hop, è un segnale comunque incoraggiante».

Nel primo volume de La Storia del Rap, la prefazione é a cura di Bassi Maestro. Chi sono per te i padri fondatori del rap italiano?

«Bassi mi ha fatto un grande regalo, non lo dimenticherò mai: avevo deciso che se non fosse stata sua non ci sarebbe stata la prefazione. Forse la mia risposta sarà banale, ma la storia è storia: Lion Horse Posse, Onda Rossa Posse, Sangue Misto, Radical Stuff, Bassi Maestro».

 

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