La trap fa così schifo?

Stavo pensando a Young Signorino primo su tendenze, ai post dei rapper che non accettano che un personaggio abbia la meglio su di loro e penso cazzo hanno ragione. Anche a me rode quando vedo andare avanti uno che copia e incolla la qualunque senza sbattersi a scrivere niente e ha più visualizzazioni di me. Quindi capisco i post dei vari Lazza, Oro Bianco, capisco meno quello di Space One. E mentre navigo nei pensieri, subito dopo aver intervistato un membro della Bandits Crew, la storica crew di breakdance di Milano che mi ha riportata ai tempi del muretto, mi imbatto in un articolo scritto per Lavoro Culturale (http://www.lavoroculturale.org/gli-alieni-della-trap-spiegati-ai-quarantenni/) da Lorenzo Misuraca. Il titolo é ‘Gli alieni della trap spiegati ai quarantenni’, io non ho 40 anni ma su certi punti mi trovo in accordo con lui e la mente mi si é aperta e la parole scorrono come un fiume in piena. Vi propongo uno stralcio.

In uno dei suoi pezzi più conosciuti, la “rockstar” della trap italiana, Sfera Ebbasta, tenta di chiarire i rapporti con la tradizione rap una volta per tutte, in poche barre:

Non mi frega di niente Non c’entro col rap, no Con quello e con l’altro No scusa, no hablo tù lingua Ma sicuro piace a tua figlia.

Una delle cose che fa più incazzare chi tra quelli della mia generazione ha una storia di passione per il rap, è l’ingratitudine verso i pionieri della cultura hip hop tricolore. A parte poche eccezioni (Gemitaiz, Achille Lauro, Ghemon, Tedua) nessuna delle nuove star trap si sente figlia, o in qualche modo erede, di Neffa, Sottotono, Dj Gruff, Colle der fomento, ecceterae questo vale in Italia così come in America. Quando durante un’intervista in radio, Sfera Ebbasta ha dichiarato candidamente di non aver mai ascoltato i Sangue Misto, qualcuno è andato a chiedere una bomba nucleare in prestito alla Russia per cancellarlo dalla faccia della terra. Ma è uno scandalo inutile, sono più le cose che dividono rap e trap di quelle che li accomunano. Tra queste ultime c’è sicuramente un individualismo di fondo, che invece è assente nei gruppi indie di derivazione rock (un tempo si chiamavano alternativi). A parte il filone delle posse, esplicitamente legate ai fenomeni dei centri sociali e apertamente politicizzate, la narrazione dell’hip hop italiano è sempre stata la storia di individui riuniti in branco (crew), in lotta aperta col sistema e con le convenzioni sociali, più per reazione esistenziale che convincimento ideologico. “La ballotta”, per dirla con Neffa, non prende parte alla grande corsa al consumo, alla giungla della competizione, ma nemmeno si fa portavoce delle lotte di movimenti sociali ancora vitali negli anni Novanta e Duemila. Mentre per i gruppi combat-folk e alt-rock uno dei filoni tematici fondanti è il racconto dei miti costitutivi di un certo mondo (la resistenza, l’antifascismo, l’anticapitalismo), nel rap si fa strada l’egotrip, lunghe filippiche in cui l’unico obbiettivo è esaltare le proprie doti artistiche e buttare merda sui rivali, il king contro i suckers. L’esaltazione dell’ego è rimasta un pilastro della trap, ma si inserisce in un contesto completamente diverso per ragioni sociali ed economiche.

Le trap star invece si muovono sulle macerie della più grande crisi economica vissuta dal Paese a partire dagli anni Settanta. 

In questo contesto l’egotrip del vecchio rap si trasforma in epica del self made man: il punto non è essere il più bravo, il punto è essere riusciti a tirarsi fuori dalla merda con le proprie mani, da soli, senza alcuna agenzia sociale d’aiuto, anzi con alcune decisamente ostili, come la polizia, la scuola, in alcuni casi il carcere. Tranne poche eccezioni, i migliori trapper italiani sono proletari, figli delle borgate dormitorio di Roma, Milano, Napoli: Ghali, Sfera Ebbasta, Achille Lauro, Og Eastbull, Enzo Dong e altri. Non esiste alcun orizzonte di redenzione comune possibile, nessuna struttura a cui rivolgersi per venire fuori dalla merda, se non rimboccandosi le maniche e fare le cose per bene. YouTube e la democratizzazione della produzione musicale legata alla digitalizzazione degli strumenti fanno il resto. Mentre nelle interviste sull’indie pop rock ritorna come una litania la domanda “esiste una scena?”, gli artisti trap semplicemente non si pongono la questione: soli sono nati, e soli devono riscattare la loro situazione. L’unico aiuto, l’unico supporto, è quello della gang, il gruppo di amici che siede sullo stesso muretto, e della famiglia.

Non esiste un trapper che non abbia dedicato un verso d’amore e riconoscenza verso la propria madre. “Oh, fanno tutti i punk e poi sono dei mammoni” è lo sfotto più comune. Anche qui, basta dare una veloce scorsa alla biografia dei più famosi trapper italiani, per vedere che hanno un dato in comune: sono stati tutti cresciuti dalla madre, con un padre assente, in alcuni casi violento, in condizioni economiche difficili.

«Siamo i Beatles, siamo i Sex Pistols. In giro ci stanno chiamando i Sex Beatles», la barra di Cono gelato della Dark polo gang è perfetta per far incazzare i parrucconi della musica, e proprio per questo coglie nel segno, come spiega benissimo Noyz Narcos (altro padre riconosciuto dalla trap italiana insieme a Gue, Marra e Fabri) in un’intervista.

La Dark Polo Gang è il TruceKlan degli anni Dieci? Fanno una cosa differente, ma sono entrati a gamba tesa, nella maniera più dissacrante possibile, quindi il paragone ci sta. Io credo che sia figo il modo con il quale si sono imposti, hanno la giusta vena di follia. A livello musicale spaccano […] madri e padri dei loro supporter li odiano, come ai tempi odiavano noi.

Questa è la fondamentale differenza tra la trap e l’indie italiano, che crea una continuità tra la prima e una cultura alternativa come il punk: esiste una subcultura deviante secondo le regole sociali maggioritarie, fondativa di miti, simbologie e abitudini a sé, a partire dalla droga di riferimento, la purple drunk, fino a un’estetica capace di imporre uno stile e dei marchi commerciali alla massa adolescente. È vero che al contrario del punk, che rigettava i grandi simboli del capitalismo, la trap esibisce un’identificazione con le griffe talmente parossistica da essere quasi iconoclasta, ma a differenza dei vari The giornalisti, Calcutta, Dente, non c’è nessun parassitismo della cultura musicale mainstream.

Per quanto riguarda il suono, dal punto di vista dell’accuratezza, della freschezza, della professionalità, la trap spacca il culo ai deboli cantautori figli illegittimi di Dalla, Gaetano e Venditti. Mentre la platea indie si racconta la grande balla di aver scoperto con Liberato un prodotto veramente internazionale (ma quel tipo di elettronica fuori dall’Italia non va più di moda da dieci anni almeno), le migliori basi confezionate da producer trap come gli italiani Charlie Charles e Sick Luke non hanno nulla da invidiare a star mondiali di questo genere, come Post Malone, o Mingus. Niente chitarrine scordate, niente cali di tensione imbarazzanti, e piuttosto che le voci stonate e stentate degli artisti da cameretta, meglio l’autotune. A questo si aggiunga la professionalità con cui sin dai primi passi i progetti che girano attorno ai migliori trapper hanno accompagnato la musica: video di ottima fattura, merchandising, creazione di un vero e proprio brand. È vero, questo non è punk! Ed è persino poco romantico. Ma non dimentichiamo che a differenza di chi iniziava nei garage di vent’anni fa, con pochi mezzi e poco pubblico, oggi con YouTube e gli altri social il pubblico esiste già, la difficoltà è piuttosto riuscire a convincerlo a guardare te invece che altri. In un sistema di riconoscimento reciproco basato su views e like, è antistorico chiedere a un ragazzo nato nel 2000 di comportarsi come se l’automarketing non lo avessi ciucciato sin da piccolo insieme al latte materno.

«Sì, è vero, tutto quello che vuoi, il contesto, la madre, la periferia. Ma i testi non dicono un cazzo». Ok, in certi casi é vero, ma c’è più ricerca linguistica in una canzone di Ghali o Achille Lauro che in dieci di Calcutta o Motta. Dove l’indie pop italiano si rende inerte con trasposizioni piatte del parlato («Facciamo finta di ballare / Non ci reggono le gambe, ma adesso chiudono il locale», Motta), si arrendono all’infantilismo del gioco di parole («Fuori è notte, mangio il buio col pesto», Calcutta), o fa l’occhiolino alla nostalgia generazionale («Sei la nazionale del 2006», The giornalisti), la trap, così come il rap, fa un lavoro serrato su metrica e assonanze, mescola italiano colto, gergo, slang, lingue straniere e onomatopee in maniera creativa. Soprattutto, la trap è un ambiente vitale. Dalla deriva pop di Ghali alla Samba trap di Achille Lauro, c’è sempre margine per sorprendersi e imparare qualcosa di nuovo. E riguardo ai contenuti, quantomeno nella rabbia, nell’ambizione, nella desolazione culturale dei testi dei trapper, c’è più Italia che nella retromania striminzita dell’indie.

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