La storia del rap di Andrea Di Quarto

L’hip hop è uno specchio della verità. Il problema è che mostra parecchie delle verità brutte che la società cerca di nascondere. Busta Rhymes

Andrea Di Quarto, giornalista e appassionato di hip hop e di cultura afroamericana, è l’autore de ‘La Storia del Rap‘, pubblicato il 30 novembre 2017 per Tsunami Edizioni. Il libro, da leggere tutto d’un fiato, ripercorre la storia dell’hip hop dalle origini alle faide del Gangsta Rap dal 1973 al 1997.

Come e quando ti sei avvicinato al rap?

«Ho cominciato da subito, nel 1980, quando è arrivato anche da noi “Rapper’s Delight” della Sugarhill Gang. All’epoca ero un ragazzino, vivevo a Palermo e conducevo programmi alla radio. Solo che per noi quella “cosa” non era rap, non conoscevamo neppure quella parola, quanto piuttosto una forma di disco music. Tutti i brani di quel periodo come “Wot” di Captain Sensible, “Rappper’s Reprise” della Sugarhill, “Buffalo Girls” di Malcom McLaren e le prime cose di Afrika Bambaata, le percepivamo così. È stato solo più avanti, con l’arrivo dei Public Enemy che ho capito che dietro questa musica c’era molto di più e ho iniziato ad entrarci dentro. Arrivato a Milano, nel 1990, mi si è aperto un mondo: qui c’era gente che questa musica la faceva, c’era il centro sociale Leoncavallo e il Muretto, un angolo del centro proprio a due passi da dove lavoravo io. Uscivo dal giornale e mi fermavo ore a guardare questi ragazzini che ballavano breakdance sopra un pezzo di cartone accompagnati dalle ghetto blaster»

Oggi manca la conoscenza di questa cultura?

«Sicuramente. Ma in parte è normale e comprensibile. Le generazioni più giovani sono cresciute con questa musica, anzi, con quello in cui, almeno da noi, è stata trasformata e magari faticano a coglierne l’aspetto più dirompente. Inoltre la commercializzazione del rap ha fatto sì che molti rapper non provengano da crew e non siano legati alle altre discipline dell’Hip Hop. I primi rapper, invece, anche in Italia venivano quasi tutti dal mondo del writing».

Da Kool Dj Herc e Africa Bambaata com’é cambiato l’hip hop negli anni successivi?

«È cambiato tantissimo. Inizialmente si rappava su basi essenzialmente disco, poi sono arrivati i Run-Dmc e Rick Rubin che hanno introdotto il rock ed eliminato le melodie. Poi c’è stata la fase Native Tongue, con i gruppi che attingevano a piene mani al jazz, e poi ancora Los Angeles ha introdotto il gangsta rap e il g-funk, Kanye West ha portato dentro il Rap Game una cultura musicale e una complessità che non si era vista prima, il Sud che riportato in auge la party music alzando di molto l’asticella della sensualità, fino ad arrivare ai ritmi di oggi molto club oriented. Il rap si è sempre evoluto e lo ha sempre fatto per sopravvivere. Ha superato ogni sorta di tempesta ed è ancora qua dopo quasi cinquant’anni».

Run DMC, Beastie Boys e Public Enemy sono stati i primi gruppi rap, che contributo hanno dato?

«Fondamentale. I Run-Dmc furono i primi a realizzare dischi fatti solo di beat, senza melodia, e con campionamenti rock che erano usuali nei club, ma non su vinile. I Beastie aprirono questo mondo ai bianchi, anche se inizialmente lo loro forza musicale fu sottovalutata, mentre i Public Enemy con il tappeto sonoro della Bomb Squad dimostrarono la forza rivoluzionaria che questa musica poteva avere. Dissero a una generazione che doveva smetterla di vergognarsi di avere la pelle nera e di cominciare ad esserne fiera».

I Run DMC con le loro Adidas hanno dato il via al connubio rap/moda?

«Hanno fatto di più. Cambiarono l’impatto visivo. Prima dei Run-DMC l’immaginario era ancora quello della disco, con camicie di seta, guanti, mantelli e cose del genere. I Run-Dmc furono i primi a salire su un palco vestiti come il loro pubblico: tute, scarpe da tennis, cappelli. L’idea di intitolare un brano “My Adidas”, poi, fu geniale. Furono il primo testimonial non sportivo a firmare per la casa tedesca».

Ice T ha dato il via al gangsta rap di Los Angeles, è stato l’inizio della faida East/West?

«Non fu il primo in assoluto, ma viene considerato l’iniziatore del genere grazie al successo della sua “6 in the Morning”, che per la prima volta parlava senza giri di parole di un certo stile d vita. Ma inizialmente la faida non c’era. Ice T registrò il suo primo album a New York con Afrika Islam. Era amico di Grandmaster Caz e altri pionieri della scena East. La rivalità la scatenò Suge Knight ai Source Award del 1995, quando dileggiò pubblicamente Puff Daddy e invitò gli artisti ad andare alla Death Row»

East e West una guerra durata anni che ha portato alla nascita di molti artisti tutt ora presenti sulla scena. Una guerra che si pensi abbia causato la morte di Tupac e Biggie. Una guerra che ha appassionato tutto il mondo. Qual è la tua visione in merito?

«È una pagina dolorosa perché ha gettato discredito su tutto il genere e ha fatto sì che molte persone identificassero il rap come la musica dei criminali. Inoltre ha fatto comparire le pistole e le aggressioni vere. Da un subgenere che parlava di gangster si è passati a una musica fatta da gangster. A un certo punto la Death Row non era più un’etichetta, ma una gang. Senza quel clima folle e paranoico non si sarebbe arrivati agli assassinii di 2Pac e Biggie. È stata un’occasione sprecata da molti punti di vista, compresa la possibilità gettata al vento di creare la prima major a totale conduzione afroamericana.

Come sono cambiati il rap e la scena usa dopo la morte di Biggie?

«Nulla è stato più come prima. Si è capito che se si fosse continuato su quella strada sarebbe stata l’autodistruzione. Certo, ci sono stati altri beef, ma episodi sporadici».

Fin dagli albori negli usa c’è sempre stata la presenza di esponenti del rap femminile, quali sono i nomi che per te hanno dato il maggiore contributo? E secondo te perché in Italia manca questo?

«Lo stesso rap deve la sua nascita, come fatto discografico, a una donna, Sylvia Robinson. Fu lei che ebbe l’intuizione che quei “dj parlanti” potevano funzionare su disco malgrado le stelle di allora, a cominciare da Grandmaster Flash, non fossero d’accordo ritenendo che fuori dal suo contesto live il rap non avesse senso. Quelle tecnicamente più brave a mio modo di vedere erano Laurin Hill e Bahamadia, ma colei che ha lasciato il segno più profondo è senza dubbio Missy Elliott, che è stata anche un ottimo produttore. Penso che neppure nel rock ci sia una figura equivalente per completezza. In quanto all’Italia le donne, purtroppo, sono meno emancipate che in altri paesi, ma è un problema del Paese non solo del rap. Il fatto che ci siano ragazze come te e altre, che scrivono di hip hop, è un segnale comunque incoraggiante».

Prefazione a cura di Bassi Maestro. Chi sono per te i padri fondatori del rap italiano?

«Bassi mi ha fatto un grande regalo, non lo dimenticherò mai: avevo deciso che se non fosse stata sua non ci sarebbe stata la prefazione. Forse la mia risposta sarà banale, ma la storia è storia: Lion Horse Posse, Onda Rossa Posse, Sangue Misto, Radical Stuff, Bassi Maestro».

 

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